Castel Campagnano, al confine fra Casertano e Sannio, era un territorio ricco di talento. Stretto tra due massicci montuosi, Taburno e Matese, nascondeva piccoli tesori. Tra sabbia ed argilla, materiale vulcanico ed arenarie, clima montano nonostante l’altitudine non eccessiva, venti costanti e grandi escursioni termiche crescevano vitigni autoctoni preziosi ma dimenticati.

Castel Campagnano aveva tutto. Mancava solo un briciolo d’amore. A far emergere le potenzialità di questo angolo d’Italia ci hanno pensato Peppe e Manuela che con tenacia, passione, dedizione e forza hanno iniziato qui a produrre i loro vini.

E siccome l’amore si moltiplica, tra i filari di Pallagrello e Casavecchia è iniziata la loro storia d’amore.

Come siete arrivati al mondo del vino?

Per caso, per passione, per circostanze varie. Ero solo un’appassionata, mi piaceva bere buon vino e quando ho conosciuto Peppe che aveva riscoperto il Pallagrello e il Casavecchia, antiche varietà autoctone della provincia di Caserta, l’ho cercato per fargli un’intervista, io all’epoca ero giornalista del Mattino. Da lì è iniziata la nostra storia e l’azienda Terre del principe: ho comprato delle terre e avevo il mio principe azzurro.

Faceva un lavoro gratificante, cosa l’ha spinta a cambiare? 

Facevo la giornalista da oltre vent’anni e tutti i lavori io credo che siano a tempo, dopo un certo periodo hai voglia di cambiare, di provare nuove sfide. Almeno per me è così. Poi il lavoro di giornalista è particolarmente impegnativo e stancante, vivi in un mondo parallelo, con orari diversi, senza domeniche e giorni festivi. A cinquant’anni mi sono accorta che mi ero persa qualcosa.

Si è mai pentita?

No, anche se ci sono stati ovviamente momenti difficili, avviare un’impresa è molto impegnativo

Il primo ricordo legato al vino?

Mia nonna era friulana e aveva l’abitudine di fare sempre l’antipasto con una fetta di pane inzuppata nel vino rosso. La faceva assaggiare anche a me bambina e mi sembrava buonissima!

Il primo incontro con il vino, il primo assaggio.

Un Refosco dal Peduncolo rosso del Cavalier di Bertiolo. Avevo vent’anni, ero in un ristorante di Roma, ricordo che mi piacque moltissimo, allora ero quasi astemia. Mi segnai il nome del vino su una scatola di fiammiferi e non l’ho mai più dimenticato.

Il secondo? È stata una conferma?

Credo fosse un Amarone di Masi: fu la conferma che il vino aveva molte facce, una più interessante dell’altra.

Cos’è il vino per lei?

La possibilità di vivere a contatto con la terra, di subirne gli umori, il dover essere io costretta ad adattarmi alle stagioni, alla natura e non viceversa. Per chi come me è nata e vissuta in città dove ogni cosa sembra possibile perché ci sono i negozi che ti vendono tutto e sempre e, per di più, non ha mai fatto un lavoro manuale è stata una rivoluzione copernicana. Ho compreso quanto poco possiamo dinanzi alla vita e alla morte, alle malattie delle piante e nostre e agli eventi atmosferici.

Il ricordo più emozionante legato al vino

L’incontro con Luigi Veronelli, uno dei personaggi più importanti nel mondo del vino, in assoluto. L’ho conosciuto molto bene, siamo stati amici, sono stata la sua collaboratrice in Campania. Grazie a lui ho pubblicato molti libri, due per la sua casa editrice. Era un uomo fantastico che è riuscito a rimanere giovane, ma veramente, fino alla morte.

Un aneddoto legato al vino che le sta a cuore?

Quando chiamammo di sera tardissima Luigi Moio al telefono: era una delle prime vendemmie di Casavecchia, e scoprimmo che il vino era andato in riduzione. Lo avevamo assaggiato con lui nel pomeriggio e stava benissimo ma la sera aveva una puzzetta che non ci piaceva. Lui si precipitò all’alba e insieme capimmo che il Casavecchia per sua natura va facilmente in riduzione, è un vino mangia-ossigeno. Bastava travarsarlo, dargli aria, per risolvere il problema. In quelle ore avemmo una paura incredibile di perdere il vino, conoscemmo invece un aspetto inedito del Casavecchia.

Ed una storia legata al vino che le sta a cuore?

La storia del Pallagrello è bellissima, da vino famosissimo all’epoca dei Borboni a vino dimenticato, poi riscoperto e amato. È la storia più vicina a noi, ovviamente, e quella che più amiamo raccontare.

Mi racconti la sua storia

Peppe aveva riscoperto questi vitigni sulla scia della memoria familiare. Suo nonno, che Peppe amava molto, riceveva dai contadini a Natale e Pasqua questo vino come pagamento del canone per i terreni che però non abbiamo ereditato perché se li è giocati a carte. Da adulto, volle andare a cercare quei contadini e capire da dove venisse quel vino che nella sua memoria era fantastico. Così ha trovato vecchie piante prefillosseriche di Pallagrello bianco, Pallagrello nero e Casavecchia da cui è nata tutta l’avventura che ha cambiato la sua vita e la mia. Per alcuni anni ha fatto il vino per casa, poi è nata una prima aziendina dedicata a sua mamma, poi nel 2003 Terre del Principe.

La vostra storia senza vino

Probabilmente io sarei ancora giornalista, lui avvocato. Ma può anche darsi che sarebbe accaduto qualcosa che ci avrebbe fatto deviare dal percorso. La vita è sempre dietro l’angolo.

Il territorio dei vostri vini

Un territorio fantastico, a confine fra Casertano e Sannio. Castel Campagnano è tra due massicci montuosi, il Taburno e il Matese, e gode di un clima montano pur essendo a 250 metri slm. Venti costanti, grande escursione termica rendono possibile il “miracolo” del Pallagrello che avendo un grappolo molto serrato non arriverebbe sano in cantina se ci fosse un altro microclima. Poi il terreno è unico, abbiamo le arenarie di Caiazzo, un mix di sabbia, argilla e materiale vulcanico che dona profondità e mineralità ai vini. 

Come nascono i vostri vini?

Nascono da una cura maniacale in vigna, in cantina devi solo accompagnare quel che la natura ti regala. Naturalmente devi avere un progetto perché le uve sono come una tavolozza con i colori: puoi dipingere una stanza di bianco o fare la Cappella Sistina, dipende da quel che c’è nella tua mente, dalla tua idea del vino. Se vuoi un vino elegante devi lavorare su potature, raccolte, tempi di macerazione. Se vuoi un vino di pronta beva, in cantina non hai bisogno di carati, se vuoi un vino da invecchiamento devi fare altre scelte. Insomma il vino dipende dalla qualità delle uve e da chi lo produce. I francesi, che il fenomeno vino l’hanno inventato e quindi la sanno lunga, hanno coniato la parola terroir: vitigno, terreno e uomo.

In vigna avete scelto il biologico

La scelta del Biologico è stata conseguenziale alle nostre scelte. Non si cambia una vita che ti piace se non hai il sogno di fare il vino più buono del mondo. E questo passa per la qualità a trecentosessanta gradi, per la cura della terra, per il rispetto della natura. Biologico forever, dal 2019 non solo come agricoltura ma anche come vino e azienda.

Aneddoti legati ai vostri vini

Abbiamo incontrato tante persone grazie ai nostri vini. Per alcuni anni abbiamo avuto un bed&wine nel quale abbiamo ospitato decine di appassionati da tutto il mondo, è stata un’esperienza molto bella e impegnativa che però ci ha consentito di stringere amicizia con mezzo mondo. Abbiamo incontrato un avvocato di Boston ad esempio, Bob Griffin, che dopo il nostro incontro, il suo primo da appassionato di vini italiani, è diventato un grande degustatore e promotore dei vini del Sud negli Usa. Ma la storia più singolare è legata a dei winelovers argentini che vennero a trovarci, grandi fan dei nostri vini. Arrivati a Castel Campagnano, una delle due coppie volle visitare il centro storico ed entrò nella Chiesa dedicata a S. Maria della Neve. Quel giorno c’era stata forse una promessa di matrimonio o qualcosa di simile, insomma lei trovò all’ingresso un grande cuore di petali di rose, entrò e vide il quadro della Madonna. Uscì in lacrime e ci raccontò che questo in Italia, da noi, era stato il primo viaggio dopo una terribile malattia del figlio culminata in un’operazione che però era andata bene. Il chirurgo, uscendo dalla Sala operatoria, rassicurandola le aveva detto: il merito non è stato mio ma di questa Madonna, e le offrì un’immaginetta della Madonna della Neve, la stessa che aveva trovato a Castel Campagnano, entrando nella chiesa con un cuore disegnato per terra, come il suo cuore di mamma. Una storia struggente e bellissima, legata ai nostri vini. Come dimenticarla?

Terre del principe

Il nome è un riferimento chiaro al principe azzurro, alla vostra storia d’amore e all’amore per il vino.

Con Terre del Principe sono emersi tre talenti in un grande intreccio, il territorio, i vitigni ed il vostro talento.

La vita è sempre fatta di intrecci, non viviamo da soli, calpestiamo la terra, respiriamo l’aria, guardiamo i paesaggi, ci appoggiamo a chi amiamo e ci ama. La nostra terra aveva bisogno di qualcuno come noi che la capisse e l’apprezzasse, quelle uve antiche avevano necessità di essere rivalutate e amate, tutto questo si è intrecciato con le nostre sensibilità, le nostre esperienze, la nostra passione. È questo il piccolo miracolo di Terre del Principe.

Vitigni autoctoni, in tanti fanno questa scelta, voi con particolare successo.

Siamo stati fortunati perché il momento storico, gli anni Duemila, dava attenzione ai prodotti particolari, espressioni di piccoli territori fortemente identitari. I nostri non sono vini facili, per niente. Hanno una personalità forte, precisa. Ci somigliano e somigliano alle nostre terre.

La vostra etichetta, cosa rappresenta?

Il logo ci è stato disegnato da un grafico, Alfredo Profeta, poi scomparso. Porta al suo interno i gigli dei Borbone, perché il Pallagrello era il loro vino preferito. Ma non abbiamo nessuna nostalgia neoborbonica, voglio precisarlo, è solo una citazione storica. E poi c’è un’etichetta particolare, quella del Piancastelli, il vino del mio cuore, che ogni anno viene disegnata da un artista diverso.

Avete avuto un momento in cui avete pensato di fermarvi? E cosa vi ha spinti ad andare avanti?

Certo, ma siamo ancora qua. Terre del Principe è la nostra creatura, che fai lasci un figlio dopo averlo messo al mondo?

Una parola nel mondo del vino che vi piace

Terroir.

Una che vi rappresenta

Consapevole incoscienza.

Se i vostri vini fossero delle canzoni?

I giorni perduti di De André: è scritta su una musica di Telemann, il concerto per tromba e le parole danno il senso delle cose che cambiano, passano e si rinnovano: proprio come le stagioni, della vita e del vino: “un giorno qualunque tu mi ritroverai, amore che vieni, amore che vai”. Un giorno qualunque berrai un nostro vino e ti sembrerà diverso dal giorno prima, perché si beve col cuore e con la testa e ciò che hai dentro influenza anche la tua percezione.

O dei personaggi?

Giulietta degli spiriti quando, in abito bianco, va incontro al vento che soffia dal mare, perché ha capito che la vita l’aspetta. Sembra la storia delle nostre piccole uve dimenticate, abbandonate e poi ritrovate dall’amore di Peppe

Se invece fossero delle opere d’arte?

Le ninfee di Monet, bellissime, eleganti, da scoprire con tutte e i cinque i sensi.